Learning from Dubai

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Note critiche su architettura e attualità, a partire dal video Trump Gaza. Con un invito all’ironia

 

Published 9 aprile 2025 – © riproduzione riservata

 

Architettura e cronaca

Che con il video Trump Gaza l’architettura sia ancora una volta protagonista della cronaca è ormai un fatto; meno evidenti sono invece presupposti e conseguenze che si accompagnano a questo fatto. 

Osservando le architetture con cui le grandi città competono nel panorama globale, abbiamo constatato da tempo come l’attenzione si stia trasferendo sempre più dal contenitore al contenuto: l’architettura sembra sempre meno interessata ad organizzare lo spazio ed è sempre più chiamata in causa per comunicare in modo istantaneo ed essenziale in merito allo status in cui si riconoscono i suoi abitanti. 

L’architettura diventa promessa di successo sociale, promuove beni o mete di turismo esclusive, si presenta sulla scena urbana come il prodotto più avanzato del fashion e dell’high tech. 

Quanto più la comunicazione si appoggia sulla sintesi figurativa, rinunciando ad argomentare il processo di costruzione del progetto, il suo obiettivo si sposta: dal descrivere, interpretare e confrontare assetti spaziali possibili, al sedurre, persuadere e omologare intorno a prefigurazioni sostanzialmente univoche e stabili.

 

Tra il dire e il fare

Come ha affermato su questo giornale Luca Gibello, è determinante nel video il “tutto e subito” garantito dall’Intelligenza Artificiale, che azzera qualsiasi ponderazione; ma non si tratta solo della rinuncia a ponderare su liceità ed etica, quanto della generale assuefazione ad una figuratività “usa e getta” che, ritenendo la sola immagine bidimensionale sufficiente a comunicare il fatto architettonico, rende sempre più generico e indeterminato il contenuto della comunicazione. 

Non si tratta dell’indeterminatezza dello schizzo, che esprime la tensione di un primo embrione di progetto a sintetizzare la volontà di divenire. Si tratta di un universo figurativo prodotto da un semplice enunciato testuale, il prompt, istantaneamente convertito in immagine fotorealistica bidimensionale, generata sulla base di un determinato dataset, ossia di una enorme quantità di immagini preesistenti, elaborate dall’IA durante la fase di addestramento. 

Il grado di attendibilità di quell’immagine è evidentemente determinato solo su base statistica, in assenza di qualsiasi controllo che assicuri, alla concatenazione di relazioni tra gli elementi che costituiscono il manufatto, un sufficiente grado di coerenza e attendibilità: abitabilità, costruibilità, rigidità alle deformazioni, sostenibilità nel tempo, congruenza con i sistemi insediativi, tra i tanti temi. 

In effetti, osservando i repertori dell’architettura glamour, ci si chiede quali configurazioni di spazi possano corrispondere a quegli affascinanti involucri, ibridazioni tra il mondo organico e quello inorganico, o cristallini rigori geometrici, o iconografie della “cuteness”, capaci di assicurare un istintivo, compiaciuto, amorevole consenso. 

Ma ritorniamo per un attimo all’espressione “organizzare lo spazio” in cui, come ha affermato Fernando Távora, si riconosce la manifestazione di una volontà di senso, mentre con “occupare lo spazio” ci si limita ad affermare il dominio su di esso. 

L’architettura glamour sembra aver dimenticato questa distinzione, riducendosi a rivelare di sé immagini fugacemente allettanti, la cui genericità è dissimulata solamente dalla presenza di valori simbolici destinati a soddisfare la vanità del creatore, a persuadere i consumatori e assicurarsi il consenso del committente.

Nel video, tra i fantascientifici grattacieli che fanno da confuso sfondo alla spiaggia, una sagoma richiama esplicitamente quella del Burij al Arab, l’hotel a 7 stelle a forma di vela che dal 1999 è indissolubilmente collegato, appunto, all’immagine di Dubai come enclave tanto iperbolica quanto esclusiva. 

Quella sagoma parrebbe messa lì come chiave codificata, che rimanda immediatamente ai repertori dell’architettura glamour, ai suoi involucri vistosi, alle luminescenze fiabesche, ai materiali tecnologici più impensati; repertori uniti da una comune ricerca della componente libidica, desiderante, che permette di superare di slancio, grazie all’incantamento che si produce, ogni reticenza, ogni valutazione di reale opportunità, di vincolo o di coerenza. Viene in mente lo spot di una nota agenzia immobiliare, dove una coppia in visita ad un appartamento sviene di fronte al terrazzo e alla cabina armadio.

 

La necessità dell’ironia

Se, fino a ieri, ci sentivamo relativamente sicuri nel nostro angolino di Europa diffidente e pigra, confidando che il sano distacco dell’ironia, come sostiene Amos Oz (Contro il fanatismo, Feltrinelli, 2004), avrebbe costituito un antidoto efficace contro l’ottusa arroganza del fanatismo e dell’autoritarismo, dobbiamo riconoscere che con quel video è stata travolta anche questa ultima trincea. La fine della satira è annunciata da Massimo Gramellini sul “Corriere della Sera” del 7 marzo, dopo che il regista Solo Avital ha rivelato di essere stato lui a realizzare il video, con l’intenzione satirica di portare a galla quanto sia meschina e ridicola la tracotanza autocelebrativa di Trump. 

Ribaltare la satira in propaganda, senza alterare di una virgola immagini e suoni, significa neutralizzarne la dimensione trasgressiva, la capacità di produrre disvelamenti. Ora, è vero che gli statuti dell’architettura, con il peso morale delle responsabilità e con quello materiale delle risorse e della permanenza nel tempo, lasciano poco spazio all’espressione letterale dell’ironia. 

Ma l’ironia muove, proprio come il progetto, dalla capacità di interrogare la realtà, anche a partire da punti di vista sghembi e irriverenti, liberandosi in questo modo dagli stereotipi ripetitivi e dalle verità prestabilite una volta per tutte. Senza uno sguardo ironico sul mondo non avremmo avuto architetti come Giulio Romano, Robert Venturi e Denise Scott Brown, James Stirling, Peter Eisenman, Rem Koolhaas, Frank O. Gehry, il filone dell’architettura radicale, il neoliberty e chissà quanti altri.

L’ironia è davvero uno dei principali punti di partenza per affermare la libertà di giudizio, per attivare il bisogno vitale di smascherare ciò che rivela la propria natura idolatrica, per resistere alla pervasività dell’aggressione tecno-millenarista, per accettare il nostro pieno appartenere al mondo che abitiamo pur senza poterlo totalmente e definitivamente dominare.

Riprendiamoci l’ironia!

Immagine copertina: un collage del video realizzato con l’intelligenza artificiale dal regista Solo Avital

Autore

  • Franco Lattes

    Nato a Torino nel 1949, ha per molti anni rivestito l’incarico di professore associato di composizione architettonica e urbana presso il Politecnico, dove si è laureato. Ha progressivamente focalizzato ricerca e insegnamento sui temi del progetto microurbano, sullo spazio pubblico e sugli intrecci tra progettazione del nuovo e conservazione dell’esistente. Oggi è impegnato nella sezione piemontese di IN/Arch. Attivo nel mondo ebraico torinese, in più occasioni di progetto e di riflessione teorica ha rivolto il proprio interesse ai temi della conservazione dei beni culturali ebraici, dell'architettura della memoria ed alle riverberazioni che la condizione e il pensiero ebraico hanno proiettato sul mondo dell’architettura. Con Paola Valentini è titolare dello studio Sequenze dove, oltre all’attività professionale, è animatore di dibattiti e iniziative politiche e culturali
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