Modello albanese? Problema architettonico

Modello albanese? Problema architettonico

Una riflessione sui campi di confinamento dei migranti voluti dal Governo italiano

 

Published 8 gennaio 2025 – © riproduzione riservata

Immagini desolanti che fanno riflettere

Ogni volta che rivedo le immagini dei centri di detenzione in Albania (ne abbiamo scritto qui), sono colpito dalla desolazione che quelle immagini tramettono. Al di là di tutte le considerazioni sulla opportunità e sulla legittimità dell’intero protocollo Italia-Albania, al di là di quella che appare una conduzione perlomeno irrituale del processo di affidamento e di realizzazione delle opere, nonché degli esiti grotteschi del primo tentativo di messa in esercizio, quelle tristi immagini fanno scattare in me quel tic involontario che credo spinga tutti coloro che hanno sviluppato una attitudine da progettista, a mettere in discussione quella che ad altri può apparire una realtà oggettiva e ineluttabile – ma che in realtà è sempre il risultato di una catena di scelte e responsabilità – per tentare di ricostruirne i processi e trovare un senso che ne chiarisca le ragioni, le intenzioni, i vincoli.

Insomma, a mettermi nei panni di chi si è trovato a progettare quei manufatti e quegli insediamenti.

Occorre notare che, mentre le cronache riportate dai media abbondano di dettagli giuridici, stime economiche e valutazioni logistiche, le descrizioni dei due centri di detenzione, della loro configurazione fisica, sono tutte frammentarie e nebulose; e questo è già un primo indicatore di quanto, in queste circostanze, sia ritenuta irrilevante – se non inappropriata – la questione del progetto, come se il senso del progetto non concorresse a formare una argomentazione politica, a dispetto dell’attenzione internazionale che, si afferma, è rivolta all’iniziativa. Per cercare di chiarire le idee, occorre ricomporre un mosaico di informazioni confuse, a volte discordanti, riportate nelle affrettate descrizioni dei media.

 

Due campi, una logica compositiva elementare

In definitiva, mi par di capire, il campo di Shengjin è un piccolo compound in prossimità della banchina del porto; costituisce infatti il luogo di arrivo e di partenza dei migranti, destinato ad alloggiare fino a 200 richiedenti asilo per il tempo necessario agli screening sanitari e alla compilazione della richiesta per il riconoscimento dello status di rifugiato. Dopo le procedure di identificazione, i migranti verranno trasportati a Gjadër, a circa 20 chilometri nell’entroterra del paese.

Il campo di Gjadër è costituito da un’area molto più estesa, al cui interno sono insediate tre diverse unità funzionali ciascuna all’interno di un proprio recinto: un centro di prima accoglienza per chi fa richiesta d’asilo, con 880 posti, un centro di permanenza e rimpatrio (CPR) da 144 posti e un carcere con 20 posti, per chi dovesse compiere reati all’interno delle altre due. Alla conclusione delle procedure, che non dovrebbero durare più di 28 giorni, i migranti – per quanto ho capito – dovrebbero essere riportati in Italia, sia quelli in condizioni di ottenere il visto e sia quelli destinati al rimpatrio.

Ciò che colpisce, in entrambi i campi di detenzione, è l’elementare logica compositiva dell’impianto, che pare rispondere a una domanda puramente quantitativa: quante cellule si possono collocare nell’area? La rinuncia a qualsiasi struttura gerarchica, a ricerche funzionali, a repertori tipologici, deriva dalla frettolosa neghittosità degli apparati tecnici o piuttosto corrisponde, con precisione spietata, ad una volontà di totale assenza?

Mentre il campo di Shengjin dispone i propri volumi intorno ad una corte, mantenendo una vaga intenzione di urbanità, in quello Gjadër le cellule assemblate in linea si dispongono in schiere parallele e assolutamente indifferenziate, con i più vari orientamenti. Lo spazio libero da edifici rinuncia a qualsiasi ruolo alternativo al chiuso delle celle, serve solamente a garantirne l’accesso e a tracciare una fascia di rispetto lungo il muro di confine. Una sua possibile destinazione a luogo di socialità (neppure l’ora d’aria, uno dei pochi diritti garantiti ai detenuti, è prevista dentro questo compound?) sembra categoricamente negato.

 

Sequenze di alti muri indifferenti al contesto

Nemmeno una traccia di un possibile rapporto tra forma e funzione, non dico rivolta al benessere degli ospiti, ma che almeno garantisca che la soluzione distributiva sia appropriata, che flussi di persone e cose siano efficienti, che sia possibile, per chi ha la malasorte di trovarsi in quei luoghi, individuare dei punti di riferimento che lo aiutino a orientarsi, che la sorveglianza sia assicurata dalla forma, dalla definizione di assi visivi e punti focali.

Sono gli alti muri che recingono i diversi compound, le fasce di rispetto dietro di essi, a garantire che i detenuti non sfuggano al confinamento; soprattutto, la necessità di garantire il controllo è affidata (presumibilmente) alla tecnologia: alle telecamere installate lungo il muro di recinzione.

Come prevedibile, non si trova traccia di qualsivoglia preoccupazione relativa alla sostenibilità degli insediamenti (un capriccio svantaggioso e superfluo, ossessione di élite intellettuali?), le superfici non edificate sono realizzate in qualche conglomerato verniciato, i volumi sono costituiti da “strutture prefabbricate alloggiative metalliche modulari” (come riporta, dai verbali di affidamento, il quotidiano «Domani» del 16 ottobre 2024); dunque manufatti per loro natura indifferenti a qualsiasi relazione con il contesto, siano essi affacciati su spazi aperti che accostati in schiere serrate o incastrati ad angolo tra di loro e qualsiasi sia la loro esposizione.

Quanto di meglio per creare punti ciechi, per produrre isole di calore e per ostacolare lo smaltimento delle acque meteoriche, sia pure in una regione a clima temperato ma ad elevata piovosità. A supplire al prevedibile surriscaldamento provvede anche in questo caso la tecnologia: gli impianti di climatizzazione individuali con sciami di unità esterne, una per ogni modulo, che spiccano nelle immagini in paradossale contrasto con lo squallore degli alloggi.

 

Architetture senza spazio per la speranza

Persino l’edilizia carceraria – pur nella disperante condizione di inefficienza e degrado – si nutre di speranza: la sia pur episodica sperimentazione di modelli edilizi evoluti (Ridolfi e Frankl a Nuoro negli anni ’50; Lenci a Rebibbia nel 1975; Mariotti, Inghirami, Campani a Sollicciano, sempre nel 1975), l’inserimento di spazi destinati ad attività ricreative, allo sport, al lavoro, alla scuola come promessa di redenzione, la possibilità di ricevere visite, le generose iniziative rivolte al riscatto e alla solidarietà.

A Gjadër e a Shengjin – non carceri ma luoghi di detenzione per persone che non hanno compiuto altro reato che tentare avventurosamente di sfuggire ad un destino di violenza, di miseria, di carestia, di oppressione – non c’è spazio per la speranza. La pretesa brevità della permanenza, la limitata prospettiva temporale (5 anni rinnovabili) del protocollo Italia-Albania, costituiscono una motivazione poco convincente a giustificare il vuoto ripetitivo e straniante prodotto da una progettazione che appare quantomeno sbrigativa; semmai confermano l’inopportunità dell’intera iniziativa.

La sensazione di brutale coercizione emanata da quello spazio fisico è il paradossale prodotto di una (intenzionale?) assenza di interesse per la cultura architettonica; un ottuso analfabetismo che ha invece generato tecniche attraverso le quali rendere più efficace il confinamento e più docili i confinati.

La affermazione del potere, anche attraverso la negazione di uno spazio rispettoso, comporta un’azione incessante di mortificazione della dignità dei detenuti e l’incuria che si aggiungerà presto a quei luoghi di afflizione pare un destino ineluttabile, quasi programmatico, come se la desolazione delle strutture in cui vivere la detenzione fosse, in fondo, un ingrediente della pena.

 

Per una riscossa dall’indifferenza

Una decina di anni fa, a partire da una sollecitazione di Salvatore Settis, destò interesse la proposta dell’Ordine degli Architetti di Reggio Emilia di istituire – in analogia con il giuramento di Ippocrate, atto simbolico che impegna i medici ad operare con coscienza e competenza in difesa del benessere dei pazienti e ad astenersi da ogni atto che ne pregiudichi la salute, la dignità e la libertà – un corrispondente giuramento di Vitruvio.

Un giuramento che affermi la consapevolezza, da parte degli architetti, che – al di là del valore contrattualistico di ogni rapporto con la committenza – prevale un superiore interesse collettivo nei confronti del territorio come bene comune, e che dichiari l’impegno della categoria ad agire conseguentemente, con responsabilità e indipendenza di giudizio, per evitare qualsiasi effetto nocivo o discriminatorio che possa ricadere sulle comunità e sui singoli che abiteranno quei luoghi e quei manufatti.

Si tratta, è vero, di un atto formale, di un wishful thinking a proposito di una tra le tante virtù dell’architetto ideale, assai poca cosa per difendere l’autonomia decisionale di una categoria che occupa una posizione debole e marginale nelle catene decisionali.

Ma poco tempo è trascorso da quando, rispondendo alla Ministra Rocella che esortava i medici a segnalare eventuali casi di violazione della legge sulla maternità surrogata, Filippo Anelli, presidente della Federazioni nazionale degli Ordini dei medici e odontoiatri, ha affermato che “il medico ha il dovere di curare. Che il medico sia esonerato dall’obbligo di denuncia nei confronti del proprio paziente lo si desume anche dal capoverso dell’articolo 365 del Codice penale che esime il medico da tale obbligo quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale”.

Un esempio incoraggiante di un esponente di categoria capace di tenere la schiena dritta e smarcarsi dalla zona grigia degli indifferenti.

L’ostentazione di quei due luoghi di afflizione rappresenta una sconfitta per tutte le categorie di progettisti, indipendentemente da chi ne sia stato l’effettivo responsabile; per reagire, occorre dimostrare la capacità di un giudizio indipendente, impedendo che – passo dopo passo, giorno dopo giorno – gli stereotipi diffusi da un potere che appare sempre più manipolatore e intollerante, si sostituiscano ad un sistema di valori civili che si è costruito faticosamente e che si è potuto affermare solo dopo le sanguinose catastrofi della storia recente.

 

Immagine di copertina: antica prigione di Dublino

Autore

  • Franco Lattes

    Nato a Torino nel 1949, ha per molti anni rivestito l’incarico di professore associato di composizione architettonica e urbana presso il Politecnico, dove si è laureato. Ha progressivamente focalizzato ricerca e insegnamento sui temi del progetto microurbano, sullo spazio pubblico e sugli intrecci tra progettazione del nuovo e conservazione dell’esistente. Oggi è impegnato nella sezione piemontese di IN/Arch. Attivo nel mondo ebraico torinese, in più occasioni di progetto e di riflessione teorica ha rivolto il proprio interesse ai temi della conservazione dei beni culturali ebraici, dell'architettura della memoria ed alle riverberazioni che la condizione e il pensiero ebraico hanno proiettato sul mondo dell’architettura. Con Paola Valentini è titolare dello studio Sequenze dove, oltre all’attività professionale, è animatore di dibattiti e iniziative politiche e culturali
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