Dove si è nascosto il discorso d’architettura?
Un’iniziativa di IN/Arch Piemonte: un seminario e una pubblicazione su otto opere paradigmatiche a scala nazionale
Published 6 luglio 2024 – © riproduzione riservata
Consultando riviste e siti di architettura, o visitando le grandi città, osserviamo la sovrabbondanza di figuratività spettacolari assistendo ad un crescente sovra-consumo di forme, immagini, rivestimenti, con architetture che sempre più spesso, nella loro a volte inutile ginnastica formale, appaiono già astutamente pensate per essere fotografate, in una sorta di “pre-posa” plastica. Una modalità di esposizione che trasforma i progetti in oggetti di design sempre più spesso indifferenti al contesto urbano, storico, sociale, ambientale con cui si confrontano. Una modalità di esposizione in cui facilmente scompare il luogo, le storie che lo contraddistinguono, le persone che vi abitano, insieme ai valori simbolici, culturali, sociali e discorsivi che il progetto, nel bene o nel male, contiene. All’interno di questo eccesso di forme ardite e vestiti luminescenti si producono in modo pervasivo nuove monadi urbane dall’autorialità esasperata, spesso attraverso l’uso di cifre linguistiche ampiamente ripetute che, sovrastando qualsiasi luogo, o discorso, semplicemente si esibiscono.
Si può facilmente osservare come le conseguenze di questo avvitamento sul significante a discapito del significato rendano sempre più difficile far emergere quali siano e da dove provengano le domande a cui il progetto cerca di fornire risposte, se sono totalmente riconducibili ad una concezione di autonomia piuttosto che di eteronomia disciplinare, se il pensiero che sottende al fare derivi da apparati teorici pregressi, da linguaggi e comportamenti consolidati, da un percorso di esperienze sedimentate, da intuizioni contingenti, o semplicemente dalla ricerca estrema di originalità.
D’altro canto avanza un nuovo non-discorso, che annulla ogni aspetto interpretativo all’interno di un imperativo eco-tecnico agito alla scala globale. Un nuovo paradigma in cui tutto viene ricondotto all’interno di una sorta di manuale prestazionale dai caratteri sempre più omologanti, e che inesorabilmente rischia di sovrastare ogni possibile discorso.
Altri ancora, più cinicamente, giocando sul consumo sempre più frenetico dell’apparizione verdolatrica, operano letteralmente all’interno di un “ecologismo di facciata”, colmo di cespugli, rampicanti, foreste domestiche. Tutto il potere argomentativo delle opere di architettura sembra esaurirsi nel richiamo all’utopia verde di un mondo nuovo; dove tutte le differenze scompaiono, dove la responsabilità sociale del mestiere dell’architetto sembra risiedere soltanto all’interno di un presunto e imperativo paradigma ecologico.
Restituire un senso al proprio fare: alcune domande
Non è questa una nostalgia per la “teoria” con la T maiuscola, ma un pacato richiamo alla necessità di tornare a sviluppare componenti discorsive capaci d’illuminare di senso ciò che accade, per tornare a vedere le differenze, per capire in che modo e per quali ragioni, dentro un qualsiasi percorso progettuale, si sia giunti dove si è giunti.
Dunque se ci riconosciamo in questa descrizione, se pur semplificata, della realtà, come possiamo all’interno di questo panorama, cercare di ridefinire l’apparato concettuale a sostegno del fare architettura? Quali sono gli ambiti operativi in cui è più facile ravvisare oggi le tracce di nuovi discorsi d’architettura? Come possiamo al contempo tentare di recuperare l’intrinseca dimensione civile e sociale del mestiere di architetto?
Occorre infine riconoscere che le domande nate da queste brevi riflessioni sono anche, in qualche misura, il tentativo di verificare – qualora esista – una qualche continuità tra l’orizzonte contemporaneo d’immaginari, tecniche e mercati globalizzati, e quelle ricerche di una ragione per l’architettura, a partire da categorie concettuali quali geografia, morfologia, luogo, storia, forme sociali, che hanno maggiormente contraddistinto l’esperienza architettonica in Italia a partire dal secondo dopoguerra.
L’iniziativa di IN/Arch Piemonte
È a partire da queste premesse che IN/Arch Piemonte ha deciso di costruire l’occasione di una riflessione sugli strumenti concettuali messi in campo; un’occasione inedita per mettere a confronto architetti e critici a partire da 8 casi studio scelti a scala nazionale e individuati con l’ausilio di advisor regionali, nel tentativo di restituire un campione sufficientemente rappresentativo dell’architettura italiana meno conosciuta.
L’ingaggio degli advisor è stato però consapevolmente segnato da un pregiudizio: l’idea che ciò che andavamo cercando fosse più facilmente reperibile nei territori intermedi. Per territori intermedi o territori interni s’intendeva anche quei territori che sono oggi tornati al centro del discorso sul futuro (e la sopravvivenza) degli insediamenti umani. Territori esterni alle grandi città che oggi sono – non a caso – considerati sempre più strategici, poiché possono ancora rappresentare una rete di sistemi antropici capaci di garantire nuove forme di sviluppo sostenibile.
Questa ipotesi si basava anche sull’assunto che questa nuova – o presunta tale – dimensione “territoriale” potesse sottrarsi alle retoriche omologanti, agli immaginari ricorrenti su cui si misura il successo delle città globali, all’imperativo eco-tecnico ridotto a stereotipo universale, in quanto più facilmente influenzata dalla cultura materiale locale, dalle condizioni ambientali, quindi da una lettura ed interpretazione tematica dei caratteri e delle condizioni anche sociali in cui l’opera di architettura si colloca. L’intenzione esplicita era quella di riuscire ad individuare architetture ben caratterizzate da differenze e identità specifiche, in modo da facilitare l’identificazione del percorso concettuale posto a nutrimento dell’elaborazione progettuale.
Durante il seminario durato due giorni, gli otto progettisti selezionati hanno illustrato il loro progetto, confrontandosi con gli altri progettisti, con i componenti del comitato di selezione, oltre ad un pubblico qualificato di circa 30 architetti e critici, invitati per l’occasione con il preciso scopo di alimentare la discussione. Il primo Quaderno IN/Arch Piemonte (Dove si è nascosto il discorso d’architettura?, a cura di chi scrive e di Franco Lattes, Edizioni SAGEP, pp. 64, euro 14) raccoglie i risultati del seminario, con la pubblicazione degli otto progetti invitati, insieme ai contributi critici del gruppo di lavoro che li ha scelti e ai commenti di alcuni autorevoli partecipanti.
Gruppo di lavoro:
Luisa Bravo, Marco Biraghi, Carlo De Luca, Davide Derossi, Davide Ferrando, Filippo Lambertucci, Vincenzo Latina, Franco Lattes, Federica Visconti
Progetti selezionati:
Nato a Torino nel 1968, si è laureato alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, dove nel 2000 ha conseguito il Dottorato di ricerca in Architettura e Progettazione edilizia. Dal 1998 collabora con la Facoltà di Architettura di Torino e dal 2004 con la Facoltà di Architettura civile Bovisa del Politecnico di Milano. Professore a contratto nel corso di Composizione urbana per la laurea magistrale dal 2004 al 2012. Svolge la libera professione all’interno della Derossi Associati da lui co-fondata a partire dal 1997, si è qualificato in numerosi concorsi nazionali e internazionali di architettura e urbanistica. Ha pubblicato progetti e testi critici in numerose riviste nazionali e internazionali. È stato coordinatore del Gruppo Città e Territorio dell’Unione culturale Franco Antonicelli e componente del direttivo IN/Arch Piemonte