Della tolleranza in architettura
La tolleranza è fondamentale per comprendere l’importanza dell’umanizzazione dell’opera, in quanto l’errore è insito negli umani
Published 13 giugno 2022 – © riproduzione riservata
Il secolo scorso è ricordato per i movimenti, per gli ISMI; poi è subentrata l’epoca delle aggettivazioni dell’architettura.
Anche in architettura quando si cerca di vendere meglio un prodotto, fare una reclame, un programma politico o si cerca di cooptare facilmente gli ingenui, si suole prendere facili scorciatoie attraverso uno smodato uso di aggettivazioni. Sono una moltitudine, di ogni genere, come se l’Architettura non bastasse più; e allora diventano slogan l’Architettura Bioclimatica, Sostenibile, Verde, Solidale, Decostruita, Accogliente, Ambientale, Resiliente, Tollerante.
L’Architettura è… Architettura! Tutto il resto è superfluo.
Siamo stanchi di opere muscolari, “anabolizzate”, allo stesso modo siamo stufi delle opere buone “catto-sociali-ambientali”, quelle che hanno la pretesa di salvare il pianeta. L’aggettivazione conferisce all’architettura un peculiare status politico programmatico, allo stesso tempo la rende “merce”.
L’Architettura è Architettura. La premessa o l’abile programma costruito a tavolino non ne suppliscono la qualità.
Cos’è l’Architettura senza aggettivazioni? È spazio, luce, materia, volume, rito, costruzione, luogo, città, cultura umanistica-tecnica-scientifica, sono soltanto alcune invarianti, alcuni caratteri permanenti e vanno oltre la moda aggettivante. Gli aggettivi sono simili a dei passe-partout o dei megafoni per amplificare e semplificare la comunicazione di massa.
È paradossale che nell’epoca della condivisione ci troviamo ad affrontare, non solo in Italia, un serio problema planetario. Mai come in questa fase della vita ci troviamo immersi in un clima di intolleranza, di divisione, di diffidenza e di rabbiosità, di fake, di virus, di haters e di hackers.
La precisione imprecisa e l’elogio dell’imperfezione
Quando compriamo un dispositivo tecnologico, un cellulare, anche un’automobile abbiamo la pretesa della perfezione. La tecnologia ci insegna che la perfezione è un valore. Però quello che abbiamo appreso oggi è che da un punto di vista umano l’imperfezione è un valore, forse ancora maggiore della perfezione.
“Quando una persona ci è molto odiosa diciamo che è un “perfettino”. “Perfettino” dovrebbe essere un complimento e invece è qualche cosa che esprime un dissenso, un disagio, non ci vorremmo mai trovare davanti un “perfettino”. Significa molte volte un formalista, un perfezionista, un cavilloso. Perché la perfezione non appartiene all’uomo, ovviamente se ci si sente o si è imperfetti si è maggiormente portati a tollerare le imperfezioni altrui. Lo diciamo anche agli insegnanti, a noi stessi, agli altri, qualche volta bisogna tollerare l’imperfezione anche nei giovani, perché se non è sciatteria, o quando non è sciatteria l’imperfezione è un valore”. (Fulvio Irace, Elogio della tolleranza)
L’arte del Kintsugi (金継ぎ), o kintsukuroi (金繕い), formata da due parole, una è oro (“kin”) e l’altra è riunire, riparare, ricongiungere (“tsugi”) da diversi anni è molto apprezzata anche in occidente. È l’arte giapponese che ripara, la ceramica infranta. Viene ricomposta, macché, viene esaltata attraverso la nuova vita delle linee di frattura; addirittura i pezzi più pregiati vengono uniti con l’oro. Le cicatrici come arte della vita vissuta, che abbraccia i danni, senza vergognarsi delle ferite.
L’architettura per sua natura è un ponte di congiunzione, non dovrebbe quasi mai diventare fattore di divisione. L’architettura costruisce o dovrebbe costruire gli spazi di condivisione. Oggi, alcune architetture hanno poco se non nulla da dirci, nulla da insegnarci sul tema della tolleranza, della convivenza, dell’auto sopportazione. Altre invece sono autentici esempi, delle “offerte” alla comunità.
Louis Kahn conferiva al calcestruzzo delle peculiari matericità, grazie alle casserature rustiche di legno non piallato. Secondo Robert Venturi si potrebbe immaginare la dura esistenza del bambino dal volto sfregiato dall’acqua bollente, per Venturi sembra la trasfigurazione di Kahn nell’architettura, nella quale anche l’arte non è esente dalle imperfezioni.
Dimitri Pikionis ha progettato con l’utilizzo dei resti di marmo e pietre antiche alcuni percorsi di risalita all’Acropoli di Atene “… I punti più esposti non sfuggono a questo pathos unitario. Le superfici delle strade più larghe sono ripensate e risolte con la misura e la diretta posa in opera di ogni pietra e di ogni cassaforma del calcestruzzo, con il disegno di ogni dettaglio, fino alle più piccole scoline dell’acqua e ai fili d’erba al bordo degli uliveti” (dal Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, 2003).
Francesco Venezia, nella ricomposizione del frammento della Casa di Lorenzo a Gibellina, crollata a seguito del terremoto del Belice, realizza un abile e poetico esercizio di incastonamento dei resti all’interno di nuove trame murarie. Raggiunge una inusitata lirica espressività nel giunto di congiunzione tra il nuovo e il frammento. Riesce ad esaltare la poetica del giunto, per molti invece è soltanto un mero espediente tecnico.
Wang Shu, Pritzker Architecture Prize, nel Ningbo Historic Museum, combina due tecnologie costruttive: il cemento armato, modellato superficialmente con canne di bambù e le parti realizzate con la tecnica wa pan (riuso di materiali esistenti). Quest’ultime rivelano nella tessitura superficiale dei muri la presenza di tegole e mattoni riciclati: più di venti tipi diversi, recuperati durante le demolizioni degli antichi villaggi.
Si potrebbero citare molti esempi. Quelli appena accennati sono accomunati, in forme diverse, da una “precisione imprecisa” che trova poeticità nell’accurata sovrapposizione, l’accostamento delle giunzioni; alcune di queste tra nuovo e preesistente, nel continuo fluire del tempo. La poetica del giunto è espressione di tolleranza costruttiva e culturale.
Tolleranza
È la capacità di resistere a condizioni sfavorevoli o potenzialmente dannose.
In architettura, quasi sempre costruire un edificio si trasforma in un campo di battaglia; non è una pratica dolce, è un momento dove si confrontano varie esigenze, a volte divergenti. Non è mai qualcosa di asettico, è un processo nel quale l’architettura assorbe e limita il margine di errore, sia nel progetto, sia nell’esecuzione. Un sostantivo molto comune, di moda, ormai sdoganato ovunque è la resilienza, la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi.
In psicologia, la resilienza è la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. La tolleranza invece è fondamentale per comprendere l’importanza dell’umanizzazione dell’opera d’architettura, in quanto l’errore è insito negli umani. La tolleranza è una precisione imprecisa. Non è la perfezione ma una elastica e dinamica tendenza a ciò.
Per cui, la perfezione nel cantiere si rivelerà molte volte il limite, sarà da sottendere ma è quasi sempre inarrivabile. Bisogna progettare con margini di tolleranza che prevedano errori. L’errore è innato; è il limite umano.
La tolleranza non è solo nella comunità delle persone, ma anche nell’architettura. L’edificio, è una comunità di materiali che non vogliono stare assieme, o che tra loro non hanno nessuna attinenza. Il vetro e il legno non hanno nulla a che vedere tra loro, lo stesso la pietra, l’acciaio e il cemento armato. È l’abilità e l’ingegno dell’uomo che riescono a far convivere il sistema complesso attraverso la tolleranza materiali. Alcuni strumenti che facilitano il dialogo e la tolleranza sono la geometria, la misura, la matematica, la fisica, la chimica, lo studio dei fenomeni naturali ed il pensiero speculativo. La tolleranza fa sì che gli errori sommati nel corso delle lavorazioni possano venire assorbiti. L’eccesso di precisione, rigida o mentale, non considera l’errore degli altri, per cui basta un piccolo errore che si somma su tutti gli altri e l’opera perde di qualità.
L’abilità progettuale consiste nel considerare i margini di errore degli altri e di mitigarli. Per cui, l’edificio porterà con sé una serie di errori, la tolleranza prevede che il posatore di un rivestimento possa avere un certo margine di errore, di umanità. È l’umanizzazione dell’opera.
“Parliamo continuamente dei secoli che han preceduto il nostro o di quelli che lo seguiranno, come se ci fossero totalmente estranei; li sfioravo, tuttavia, nei miei giochi di pietra: le mura che faccio puntellare sono ancora calde del contatto di corpi scomparsi; mani che non esistono ancora carezzano i fusti di queste colonne…”. (Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano)
Per leggere la versione integrale del testo: https://www.inarchpiemonte.it/gocce-16/
Vincenzo Latina nel 1989 si laurea in Architettura allo IUAV di Venezia. È professore di Composizione Architettonica presso l’Università degli Studi di Catania; è stato docente presso la Scuola di Architettura di Mendrisio, Università della Svizzera italiana. Ha redatto numerose pubblicazioni, tenuto lecture ed esposto le sue opere in varie mostre d’architettura nazionali e internazionali. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra questi: 2020, Premio Città del Dialogo per il progetto di “Risanamento e restauro ambientale della ex Cava di Lampedusa”; 2015, il Premio “Architetto Italiano 2015” promosso dal Consiglio Nazionale degli Architetti; 2013, Premio ARCH&STONE’13; “Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana 2012” della Triennale di Milano; 2008, “Premio Innovazione e Qualità Urbana”, Rimini Fiere EuroP.A. e “Premio G.B. Vaccarini”; 2006, ex-aequo il Premio Gubbio 2006; 2004, Premio Internazionale Dedalo Minosse, under 40; 2003, “Premio Il Principe e l’Architetto” e “Premio Internazionale Architetture di Pietra”.