La scuola primaria Bambini del Vajont di Costantino Dardi (© Fondo Costantino Dardi, ordinamento scientifico a cura dell'Archivio Progetti Università Iuav di Venezia/MAXXI Roma)

L’architettura del Novecento: conservazione, rigenerazione, sostituzione

L’architettura del Novecento: conservazione, rigenerazione, sostituzione

Un convegno a Mestre ha ragionato, partendo dall’esempio paradigmatico del territorio veneto, sui segni lasciati dal secolo breve

 

Published 31 ottobre 2022 – © riproduzione riservata

MESTRE (VENEZIA). Il Novecento ha lasciato nell’architettura italiana segni indelebili delle grandi vicende storiche, delle rivoluzioni, delle dittature, delle lotte e del progresso che sembrava soffiare prosperità sulle nazioni. È storia nota e noti sono i monumenti, i capolavori, che il secolo breve ci ha lasciato sotto forma di città, infrastrutture, istituzioni disegnate e realizzate da mani sapienti, giustamente riconosciute a livello internazionale. Meno noto è il tessuto, vasto, minuto e diffuso, sul quale si sono distinte le eccellenze, ma che ne ha costituito a volte la premessa, altre la conseguenza, sempre il contesto di riferimento. In questo quadro la regione Veneto è paradigmatica e la sua storia recente di sicuro interesse.

Se è ne è discusso a Mestre nel convegno “L’architettura del Novecento. La tutela del patrimonio architettonico”, tenuto nell’auditorium del Museo M9 il 14 ottobre.

 

Dentro un territorio

Organizzata da Ordine e Fondazione Architetti di Venezia con l’Archivio progetti IUAV, la giornata di studi ha permesso di entrare nelle pieghe di un territorio, quello veneto, nel quale alcuni casi delicati per la tutela e il riconoscimento sono di recente saliti agli onori delle cronache riportando la riflessione al giusto livello d’interesse.

Se l’importanza della conoscenza è il punto di partenza di qualsiasi tipo di salvaguardia, ma più in generale di programmazione e progetto, l’attuazione del processo di tutela attraverso le leggi che il territorio e la nazione si danno è aspetto ben più delicato e problematico. Così può accadere che in un luogo teatro di accadimenti drammatici nel Novecento come quello del Comune di Vajont (Pordenone) – ai quali si è risposto con il meritorio slancio di un piano di ricostruzione che è stato anche laboratorio di una giovane architettura del dopoguerra – in una comunità già così provata, si decida di mandare a demolizione due istituzioni in qualche modo simbolo di quegli anni a Longarone: la scuola di Gianni Avon e Francesco Tentori e la “Bambini del Vajont” di Costantino Dardi. Tutto questo in nome di un piano che ha nella parola resilienza la sua cifra.

Accanto a questo caso, altri sono stati affrontati nel corso della giornata: le aree di servizio autostradali Bazzera (Mestre) e Affi Nord (Verona) sempre di Dardi; il complesso residenziale di Altobello di Gianni Fabbri e Roberto Sordina a Mestre e le architetture per l’infanzia, quali le colonie “Principi di Piemonte” al Lido di Venezia e “Arturo Valentini” a Punta San Giuliano (Venezia); la cittadina di Colleferro (Roma), con il piano urbanistico di Riccardo Morandi. Autori, realizzazioni e contesti molto diversi ma accomunati da una caratteristica peculiare, come sottolineato dal presidente dell’Ordine architetti di Venezia Roberto Beraldo: quello di rappresentare “l’esito di estesi dibattiti sociali che hanno animato la scena architettonica del secolo passato e, spesso, al momento della loro costruzione [essi] apparivano come innovativi o come soluzioni di frontiera alle istanze a cui rispondevano”.

 

Gli strumenti d’intervento

Nel dibattito moderato da Serena Maffioletti, docente all’Università IUAV di Venezia, l’attenzione agli strumenti che “consentono di capire quanto e cosa sia da conservare, rigenerare e o reinventare e quanto e cosa invece sia da sostituire” si è snodato dal punto in cui s’incontrano la val Zoldana e quella del Piave, per arrivare alla terraferma veneziana fino alla laguna e poi compiere un salto fino al Lazio, portando l’attenzione su come alcune architetture del Novecento hanno cambiato gli orizzonti culturali non solo nel dibattito architettonico ma anche nel contesto politico, sociale e culturale in senso ampio. Sembra questa, ad oggi, la chiave migliore di lettura del costruito dei nostri territori, per poter arrivare a scelte ponderate nel campo della conservazione anche in quei casi, diffusi, nei quali il processo di salvaguardia non ha ancora potuto attivarsi, ma nondimeno i valori in gioco costituiscono un patrimonio collettivo meritevole di conoscenza e riflessione, prima di arrivare ad una qualsivoglia strategia progettuale.

 

Autore

  • Alessandro Colombo

    Nato a Milano (1963), dove si laurea in architettura al Politecnico nel 1987. Nel 1989 inizia il sodalizio con Pierluigi Cerri presso la Gregotti Associati International. Nel 1991 vince il Major of Osaka City Prize con il progetto: “Terra: istruzioni per l’uso”. Con Bruno Morassutti partecipa a concorsi internazionali di architettura ove ottiene riconoscimenti. Nel 1998 è socio fondatore dello Studio Cerri & Associati, di Terra e di Studio Cerri Associati Engineering. Nel 2004 vince il concorso internazionale per il restauro e la trasformazione della Villa Reale di Monza e il Compasso d’oro per il sistema di tavoli da ufficio Naòs System, Unifor. È docente a contratto presso il Politecnico di Milano e presso il Master in Exhibition Design IDEA, di cui è membro del board. Su incarico del Politecnico di Milano cura il progetto per il Coffee Cluster presso l’Expo 2015

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