Rischio idrogeologico e abusivismo, facciamo il punto
Breve rassegna su norme, procedure e competenze per un paese in cui vivono 7 milioni di persone a rischio frana e alluvione
Published 6 febbraio 2023 – © riproduzione riservata
I cambiamenti climatici incrementano gli eventi estremi e i disastri naturali, ne aumentano il numero e la pericolosità. In questo modo, le cronache registrano sempre più frane e alluvioni con le relative vittime e perdita di beni materiali. L’ISPRA ha certificato che 7 milioni di italiani vivono in zone a rischio di frana e alluvione.
Il caso di Ischia è quello più recente e che ha anche sollevato aspre polemiche, perché dopo ogni disastro si cercano i responsabili la cui punizione può alleviare il dolore per le vittime, oppure aumentare l’impegno per la prevenzione ed evitare che si ripetano le medesime sciagure. È compito della giustizia individuare le responsabilità, della politica stabilire norme, procedure e interventi che evitino il ripetersi dei danni. Per entrambi questi scopi è bene operare una breve rassegna per stabilire come siamo attrezzati nel nostro paese.
1966-2016: dalle frane e alluvioni ai distretti idrografici
Il 1966 è anno cruciale perché si verificano la frana di Agrigento (19 luglio), l’alluvione di Firenze e l’allagamento di Venezia (entrambe il 4 novembre), che terranno banco all’XI congresso dell’INU. «Urbanistica» (n.48) pubblica la relazione della commissione d’indagine sulla frana di Agrigento, nominata dal ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini e presieduta da Michele Martuscielli. La risposta della legge 765/67 è il potenziamento e l’estensione delle norme urbanistiche per impedire le costruzioni selvagge.
Venti giorni dopo l’evento di Firenze si costituì la Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo, presieduta da Giulio De Marchi, da cui proviene la Legge 183/89 per garantire la sicurezza della popolazione.
Pertanto è abbastanza fondata l’idea, ancora molto diffusa nell’opinione pubblica, che, per garantire condizioni di sicurezza, sia necessario controllare l’attività edilizia con norme urbanistiche e non lasciarla in balìa solamente delle leggi di mercato e delle decisioni degli operatori. Altrettanto veri sono la difficoltà e i tempi richiesti perché l’intero territorio del paese sia coperto da strumenti urbanistici efficaci e adeguatamente aggiornati, la cui elaborazione è demandata ai Comuni, anche quelli piccoli e piccolissimi con scarso personale e disponibilità finanziarie, il che porta le Regioni a studiare semplificazioni o supporti.
Dovettero passare più di due decadi perché vedesse la luce un provvedimento organico sulle acque finalizzato a preservarne la qualità e contenerne i pericoli come esondazioni e frane, basato sui bacini idrografici. Ancora di più si dovette aspettare, inclusa la tragedia di Sarno del 1998, perché diventasse operativa con i Piani stralcio dell’assetto idrogeologico (PAI). Ad opera delle Autorità di bacino, si realizzava la politica di difesa del suolo con la mappatura delle aree a diversi gradi di rischio esondazione e frane ed una dettagliata normativa degli usi consentiti.
A questo punto, con la Legge 152/2006 le responsabilità si ribaltano e i piani urbanistici, come i piani territoriali, sono sottoposti e obbligati a rispettare le prescrizioni di strumenti specialistici, i PAI. La Legge 28 dicembre 2015 n.221 abolisce le Autorità di bacino e, tra il 2016 e il 2017, il territorio nazionale viene suddiviso in sette distretti idrografici dalla gestione alquanto complessa. Sono guidati da un Segretario generale, ma l’organo deliberante è la Conferenza istituzionale, composta da rappresentanti dei ministeri e delle regioni con l’aggiunta di rappresentanti degli agricoltori e dei Consorzi di bonifica. Questa Conferenza è supportata da una Conferenza operativa composta dai tecnici dei medesimi enti con la consulenza di esperti.
La prima attività è stata quella di uniformare e integrare le norme delle diverse Autorità di bacino e incominciare a lavorare nella prospettiva del piano di gestione (che dovrà essere approvato entro il 2025) in recepimento della direttiva europea sul rischio alluvioni (2007/60/CE).
Il passaggio alla logica gestionale
Tenendo conto che la previsione dei pericoli avviene sulla base degli eventi calamitosi registrati in passato e sull’eventualità di un loro ritorno, resta aperto il problema dell’intensificarsi degli eventi estremi per effetto dei cambiamenti climatici. Infatti sono investite, talvolta, aree più estese di quelle individuate come zone pericolose. A ciò si deve aggiungere che, essendo i PAI entrati in vigore alla metà della prima decade del nuovo millennio, tutte le precedenti costruzioni non potevano godere di tale regolamentazione: così, notevoli porzioni di aree urbanizzate si sono scoperte in condizione anche di rischio molto elevato. Perciò il rispetto delle prescrizioni dell’Autorità di bacino da parte dei piani territoriali provinciali o urbanistici comunali non è sufficiente per garantire la sicurezza: si rendono necessari degli interventi di consolidamento dei versanti o di regimazione delle acque, oppure di delocalizzazione dei beni esposti.
Con il passaggio da una logica puramente regolativa a una gestionale la regia degli interventi è assegnata ai Distretti idrografici, tuttavia i finanziamenti provengono dallo stato e dalle regioni. La separazione tra la funzione pianificatoria e quella finanziaria complica l’attuazione e confonde le responsabilità. Il programma Proteggitalia metteva a disposizione, nel 2019, 10,853 miliardi ripartiti tra le regioni e le provincie autonome per la prevenzione del dissesto idrogeologico, nominando i presidenti di regione commissari straordinari per gli interventi strutturali e creando un hub operativo presso il Ministero dell’Ambiente ed i nuclei operativi di supporto presso ogni regione.
Un’analisi dettagliata sull’attuazione degli interventi “per la mitigazione del rischio idrogeologico” del territorio è stata condotta dalla Corte dei conti con deliberazione del 18 ottobre 2021. L’indagine evidenzia come i tempi per l’attuazione dei progetto si aggirino sui 5 anni e sottolinea “l’inefficacia delle misure fino ad allora adottate, testimoniata dalla scarsa capacità di spesa e di realizzazione dei progetti e dalla natura prevalentemente emergenziale degli interventi”. Tra le criticità segnala “la lentezza nell’attuazione degli interventi …, insieme alle vischiosità dei processi decisionali, alla mancanza di una vera pianificazione del territorio, alla carenza di profili tecnici adeguati all’interno degli enti territoriali”.
(Fonte: Corte dei conti, Gli interventi delle amministrazioni dello stato per la mitigazione del rischio idrogeologico, Deliberazione 18 ottobre 2021, n. 17/2021/G).
Controllo del territorio e abusivismo
Con l’istituzione della Protezione civile, nel 1990, abbiamo un’altra amministrazione utile al salvataggio dai disastri naturali. Nata per intervenire a compimento degli eventi per il soccorso alle vittime, ha avuto un’importante evoluzione verso la prevenzione dei rischi, con dispositivi di monitoraggio e previsione e con una rete per l’allerta rivolta alle popolazioni. Si tratta di un compito che ha i limiti delle conoscenze scientifiche e delle strumentazioni disponibili, ma anche il vantaggio di essere meno costosa degli interventi strutturali d’ingegneria. Il suo funzionamento richiede un’organizzazione efficiente e l’informazione, l’istruzione e la cooperazione della popolazione esposta ai pericoli. Il livello più efficace è quello della comunità, dove vige l’obbligo dei piani comunali di protezione civile. Questi devono individuare la popolazione in pericolo e programmare le modalità di fuga, raccolta e ricovero ma, spesso, incontrano la difficoltà di reperimento di strutture sicure per l’ospitalità a breve distanza.
Il controllo del territorio spetta ai comuni, mentre le regioni possono esercitare i poteri sostitutivi in caso d’inadempienza. La tolleranza nei confronti di numeri molto cospicui di fabbricati abusivi, corrispondenti a quote rilevanti di elettorato, ma anche a dimensioni ingestibili d’interventi di demolizione e ricollocazione, evidenziano la debolezza di quegli enti a fronteggiare il problema, perfino per la quota di edifici a rischio. La rassegna delle proposte è lunga ma anche inutile, poiché tutte si sono impantanate in discussioni dominate, invece che dal pragmatismo, da forti posizioni preconcette. Infatti sebbene circolino numeri consistenti, non si è riusciti ancora a condurre uno studio ufficiale e accurato. Nel 2003 si è istituito per legge un Osservatorio nazionale sull’abusivismo edilizio, ma si è dovuti ritornare sullo stesso argomento con una nuova legge nel 2017 e, infine, con un decreto ministeriale del 2022 per la Banca dati dell’abusivismo edilizio.
Legambiente ha censito 71.000 fabbricati condannati alla demolizione, la quale avviene in meno del 20% dei casi. L’ISTAT (nel rapporto BES 2021) ha conteggiato la percentuale di fabbricati abusivi su totale di quelli costruiti negli ultimi anni, registrando un calo.
Notevole è la differenza tra i comparti del paese. La Campania detiene il primato con circa la metà abusiva sul totale delle costruzioni, seguita da altre regioni meridionali. Non tutti i fabbricati abusivi sono a rischio. Stimo, sulla base di ricerche condotte nella provincia di Napoli, che le aree abusive siano a rischio alluvione per circa un 10% e per l’8% a rischio frana.
Per il 2016 è stato istituito un fondo rotatorio di 10 milioni (art. 52 della Legge 221/2015) per la demolizione degli abusi in aree a rischio elevato e molto elevato, col quale finanziarie i progetti presentati dai comuni al Ministero dell’Ambiente. La cifra, nonostante le buone intenzioni, non era ben proporzionata alla dimensione dell’abusivismo, ma soprattutto non funziona il meccanismo di autoalimentazione, perché quando i comuni agiscono in danno dei proprietari, non sono in grado di recuperare le spese sostenute per le demolizioni.
Prospettive future
In conclusione, combattere i pericoli di alluvioni e frane è difficile. Sono stati richiamati vari strumenti. Il primo è quello regolativo. Unendo PAI e piani urbanistici si può scongiurare di esporre al pericolo i nuovi interventi, a patto che si facciano accurate proiezioni in funzione delle previsioni di cambiamenti climatici. La gestione dei bacini idrografici deve assumere anche un profilo attivo con interventi di mitigazione e prevenzione del rischio, adeguati allo sviluppo delle conoscenze tecniche e scientifiche, cercando di velocizzare le procedure. Infine, andrebbero delocalizzati gli abusi esposti al rischio superando i limiti del fondo di rotazione.
In accordo con la Corte dei conti, va stigmatizzato il coacervo di enti, comitati e autorità che condividono procedure intricate, rendendo sempre difficile tanto l’attuazione dei programmi che l’individuazione dei responsabili dei ritardi e delle omissioni.

Già professore ordinario di urbanistica del DiArc dell’Università Federico II di Napoli, ha coordinato il corso di Pianificazione Territoriale Urbanistica e Paesaggistico-Ambientale e il master in Urbanistica forense. È stato direttore del Dipartimento di Urbanistica. È segretario generale dell’INU. È stato membro fondatore della Società italiana degli urbanisti e vicepresidente di Metrex, membro dell’Association of European Schools of Planning. È stato assessore all’urbanistica nella Provincia di Napoli, nel Comune di Caserta e di Afragola. Ricerca sulla pianificazione strategica, teoria della pianificazione, aree metropolitane, sostenibilità ambientale con 12 monografie, 27 curatele, 153 contribuzioni e 127 articoli. Dirige la collana Accademia di INU Edizioni. È consulente di diversi enti locali.