Il Padiglione del Venezuela alla Biennale, tre forme di oblio
A Venezia, il lento e inesorabile abbandono dell’opera di Carlo Scarpa ai Giardini della Biennale
Published 13 dicembre 2021 – © riproduzione riservata
VENEZIA. Si è chiusa il 21 novembre la XVII Mostra Internazionale di Architettura della Biennale, la seconda che vede il Padiglione del Venezuela chiuso ed escluso, di fatto, sia dall’esposizione che dalla possibilità di qualsiasi pubblica fruizione. Situato tra il padiglione russo di Aleksej Scusev (1914) e quello svizzero di Bruno Giacometti (1952), il padiglione nasce grazie alla volontà di Graziano Gasparini, architetto italiano trapiantato in Venezuela, allievo ed estimatore di Carlo Scarpa, con forti legami con l’architettura italiana. Tra le altre cose, Gasparini sarà direttore dei lavori per Gio Ponti a Villa Planchart a Caracas.
Il progetto di Scarpa
Scarpa viene chiamato dal governo venezuelano nel 1953 per l’affidamento dell’incarico. Il progetto di massima sarebbe stato consegnato nel gennaio 1954, con clausola di fine lavori entro maggio dello stesso anno, in tempo per l’inaugurazione della XXVII Biennale d’arte. Nonostante le premesse, il padiglione sarebbe stato ultimato soltanto nel giugno 1956.
La versione definitiva del progetto articola il padiglione in tre sale, reciprocamente slittate, che suddividono il programma espositivo in tre momenti distinti. Percorso lo spazio aperto, assimilabile ad un patio, si entra in uno spazio coperto con luce e aria filtrata naturalmente attraverso la transenna di recinzione. Lo spazio antistante al padiglione, anch’esso destinato all’esposizione, è coperto da un solettone cavo in calcestruzzo armato, decorato in rilievo, sostenuto da sei coppie di pilastrini in acciaio. Le pareti laterali sono realizzate con pannelli in panforte dipinti di bianco o lavorati a traforo, con vetrate apribili. La struttura metallica del grande pannello girevole d’ingresso è rivestita da asticelle in legno bruciato e spazzolato. Tratto caratterizzante della composizione sono le superfici esterne in calcestruzzo faccia a vista, materiale che nell’opera di Scarpa è capace di assumere forme complesse e di riprodurre trame sofisticate. Qui la ruvida mescola e la sovrapposizione delle ghiaie – getto a strati e sasso lavato – definisce l’aspetto figurativo che si oppone alle superfici interne delle due grandi sale, rivestite in marmorino rustico bianco, con i soffitti rispettivamente in giallo e azzurro plumbeo.
Oblio mediatico
La storia recente ci riporta altri casi di chiusura del padiglione. Del 2003 è l’eclatante serrata dovuta alla censura da parte delle autorità venezuelane dell’artista Pedro Morales, scelto per rappresentare il paese nella biennale “Sogni e Conflitti”, la cui opera di net art si sarebbe comunque presto diffusa in rete. Del 2019 è l’ultimo allestimento, inaugurato in ritardo tra rinvii e incertezze, per la biennale “May You Live In Interesting Times”. Poi il silenzio.
Uno dei più rilevanti padiglioni dei Giardini della Biennale sta subendo un processo di abbandono lento ma inesorabile, che prosegue sostanzialmente privo di risonanza mediatica. Un’opera di Scarpa a Venezia che giace dimenticata, senza cure, dietro ad una barriera di transenne che impedisce l’accesso agli spazi esterni, usati addirittura come deposito di materiali edili, cercando, senza riuscirci, di distogliere lo sguardo dei tanti visitatori.
Oblio materiale
La vicenda del Padiglione venezuelano è da sempre punteggiata da episodi di manomissione, quando non di vero e proprio danneggiamento. Già nel novembre del 1956, a pochi mesi dall’inaugurazione, l’edificio subisce l’asportazione della copertura in piombo. Nel tempo è stato oggetto di diversi interventi di modificazione che ne impediscono oggi una possibilità di lettura integrale, coerente con il progetto scarpiano.
Transenne, rifiuti, degrado, abbandono sono solo l’ultimo atto di un percorso iniziato con interventi sporadici che sta portando alla progressiva perdita di memoria di un’opera emblematica del patrimonio architettonico del secondo Novecento. Il degrado del calcestruzzo, le deformazioni dei pannelli e dei serramenti delle grandi vetrate, la vegetazione che invade i volumi affacciati sulla laguna, le trasformazioni incongrue dovute al succedersi degli allestimenti, richiederebbero ora una risposta tempestiva.
Oblio culturale
Sebbene si tratti di un’opera nota e riconosciuta, parte del nostro patrimonio culturale fin dal 1998 quando è stato tutelato, insieme con l’area dei Giardini, con un esplicito provvedimento dell’allora Ministero per i Beni culturali, l’edificio deve parte della sua vicenda al singolare status giuridico dei padiglioni, di proprietà dei singoli Stati anche se su terreni del Comune di Venezia, fatto che rende, nella prassi, molto difficile imporre qualsiasi intervento.
Appare evidente a chiunque che le incertezze legate alla condizione politica venezuelana, che concorrono ad aggravare la già pesante crisi socio-economica che affligge il paese da oltre dieci anni, non rendano la partecipazione alla Biennale una delle priorità. Malgrado ciò, uno sforzo per trovare un equilibrio tra uso e conservazione appare doveroso. Forse non solo da parte del paese sudamericano.
Conservazione per tutti i padiglioni dei Giardini
Il padiglione del Venezuela è un caso eclatante che non deve continuare a passare sotto silenzio, ma tutti gli edifici dei Giardini richiedono oggi un approccio integrato e adeguato alla conservazione e alla gestione di un patrimonio che va inteso come un sistema di architettura e natura, e non come sommatoria di singoli landmark in un contesto indeterminato. La Biennale può rivestire insieme con il Ministero della Cultura un ruolo chiave in una tale prospettiva. Un recente studio di Francesco Pierotti (Iuav – SSIBAP 2020) ha affrontato il tema di un Piano di conservazione e gestione per l’area dei Padiglioni ai Giardini. Appare però fondamentale il coinvolgimento dei paesi proprietari e delle organizzazioni culturali coinvolte, proprio come per il Venezuela è avvenuto nel recente studio Heritage in danger. Conservation plans between protection and emergency in Villa Planchart case (Di Resta, Canziani, Danesi, Iuav – Docomomo Venezuela 2020).
L’attivazione di un tavolo di dialogo tra diversi interlocutori renderebbe possibile la comprensione e la tutela dei valori di questo patrimonio nel quadro del continuo aggiornamento che il succedersi delle Biennali richiede. Che cosa rende impossibile attivare questi processi?
Andrea Canziani è architetto presso la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio delle province di Imperia e Savona, dove è responsabile del settore patrimonio architettonico. Presiede il DOCOMOMO International Specialist Committee on Education+Training (ISC/E+T) ed è stato segretario generale di DOCOMOMO Italia. Insegna Architectural Preservation presso il Politecnico di Milano.
Sara Di Resta è professore associato in Restauro architettonico all’Università Iuav di Venezia, è autrice di oltre 60 pubblicazioni dedicate alla conservazione dell’architettura del XX secolo e al progetto per il costruito tra cui “Le forme della conservazione. Intenzioni e prassi dell’architettura contemporanea per il restauro” (Gangemi 2016) e “Materiali autarchici. Conservare l’innovazione” (Poligrafo 2021). È membro del Consiglio Direttivo di DOCOMOMO Italia e di SIRA Società Italiana per il Restauro dell’Architettura.