Palazzo RAS a Milano: bene al vincolo indiretto e al valore artistico
Gli americani SOM per Allianz Real Estate hanno completamente distrutto gli interni dell’edificio di Gio Ponti, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli e Piero Portaluppi. Adesso bisogna difendere gli esterni
Il palazzo RAS (Riunione Adriatica di Sicurtà) di Milano è situato su un lotto irregolare di circa 9.000 mq tra corso Italia, via Santa Sofia e via Sant’Eufemia. Rischia di diventare un altro ‘caso’ nelle trasformazioni della città ‘moderna’, che si incuneano fin nel centro storico.
Realizzato negli stessi anni del Grattacielo Pirelli, tra il 1958 e il 1962, dallo Studio Gio Ponti, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli e da Piero Portaluppi, più che un ‘edificio’, è un complesso di volumi di differente sviluppo, altezza, dimensioni e impaginati di facciata. Gli architetti erano stati incaricati dal direttore generale della RAS e dell’Assicuratrice Italiana di progettare la nuova sede milanese della compagnia in un’area che alla metà degli anni cinquanta risultava vuota per le demolizioni del tessuto edilizio seguite ai bombardamenti del 1943.
Oggi la subentrante Società Allianz spa – Allianz Real Estate ha affidato allo Studio SOM (Skidmore, Owings and Merrill) la completa ristrutturazione del complesso. Il che ha, finora, comportato la totale distruzione degli interni con messa a nudo dei pilastri e travi in cemento armato. Via le pareti mobili, intercambiabili e insonorizzate, vetrate con cristalli Termopane o cieche con interposte lastre di piombo; via i pavimenti, i soffitti, le pareti, i condotti impiantistici; gli interni sono stati riportati al rustico, come in un qualsiasi edificio in costruzione.
Eppure, tutti questi elementi andavano considerati non soltanto sotto il profilo funzionale, ma anche storico: testimonianza dell’impegno, in particolare di Ponti, per ottenere un’adeguata flessibilità interna con una serie di accorgimenti allora all’avanguardia. Certo, come ha scritto Leonardo Benevolo, “una delle prerogative più importanti dell’architettura è […] di non essere legata univocamente alla precisa funzione originaria, ma di contenere sempre un margine, più o meno vasto, per altre utilizzazioni”. Si direbbe che l’architetto, progettando un edificio, gli infonda una carica più ampia di quel che occorre per le immediate necessità.
Dunque, ora che gli interni sono distrutti, possiamo forse pensare che il loro indubbio interesse dovesse cedere il passo a nuove esigenze. Ma non ne siamo né convinti, né contenti.
Resta il problema degli esterni: il progetto del nuovo committente potrebbe totalmente snaturarli. Innanzitutto, il complesso di corpi di fabbrica, pienamente partecipe della trama urbana, supera la dimensione architettonica.
In secondo luogo, si rinunciò a disegnare i prospetti secondo una griglia indifferenziata. Scrisse Ponti su Domus: “dopo i poetici rigori della Montecatini e della Pirelli i progettisti, trovandosi a costruire nel cuore della città e vagheggiando per un edificio, pur destinato a uffici, una espressione esente da una […] ’pressione di severità’ hanno attenuato il rigore e l’estensione delle dimensioni attraverso l’apparire delle trame strutturali in verticale e in orizzontale, calibrate non sulla dimensione totale ma su quella ‘a misura umana’ dei piani e delle finestre”. Insomma, gli interni sono proiettati in esterno, non secondo un rapporto geometrico ma, piuttosto, secondo una ‘misura’ interpretata dalle trame e dal ritmo delle aperture, differenziate nei diversi corpi di fabbrica.
Infine, i materiali: le fasce d’intonaco Fulget che inquadrano le specchiature di granito Red Cardinal, secondo la modularità delle strutture; le facciate secondarie interamente rivestite di Fulget e granito rosso; il granito Sud Africa su via Sant’Eufemia; lo zoccolo degli edifici in Serrizzo lucidato e il palazzetto del Meccanografico rivestito in litoceramica. Insomma, i progettisti si sono guardati attorno, e le chiese di San Paolo Converso e di Sant’Eufemia hanno sicuramente contribuito a ispirarne le scelte.
Per quanto osservato, possiamo dire che gli esterni di questo complesso appartengono più alla città che ai singoli edifici e a chi li gestirà. Prendendo a prestito un termine dall’economia, potremmo dire che essi fanno parte di quei ‘valori di comunità’ che, nel tempo, determinano l’identità dei luoghi e il ricordo degli ingegni che vi hanno operato.
Bene, dunque, hanno fatto la Soprintendenza a prospettare prescrizioni di vincolo indiretto in funzione dei monumenti religiosi vicini e la Direzione Generale Creatività Contemporanea a decretare l’importante carattere artistico dell’opera.
Nato a Napoli (1948), vi si laurea in Architettura nel 1973. Direttore presso la Soprintendenza BAP di Napoli e provincia dal 1979 al 2013 e Soprintendente reggente nel 2000. Componente del comitato tecnico per il Piano nazionale per gli archivi e l’architettura del Novecento del MiBACT (2001-2013). Membro del comitato scientifico dell’Associazione Dimore Storiche – Campania. Presidente di Do.Co.Mo.Mo. Italia ONLUS. Autore di numerosi restauri e di allestimenti di mostre di architettura e arte. Premio ex-aequo al concorso per progetti pilota per la conservazione dei monumenti tra Paesi membri CEE con il progetto per la chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli (1988). Dal 1996, docenze a contratto presso l’Università degli studi di Napoli Federico II, la Seconda Università degli studi di Napoli, l’Università degli studi della Basilicata e l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa. Tra le principali pubblicazioni recenti: “L’area metropolitana di Napoli. 50 anni di sogni utopie realtà” (curatela con M. Visone; Napoli 2010); “Maledetti vincoli. La tutela dell’architettura contemporanea”, Torino 2012; “Time Frames: Conservation Policies for Twentieth-Century Architectural Heritage (curatela con M. Visone; Londra-New York 2017)