Moretti oltraggiato
Sottoutilizzata dal CONI e quasi celata al pubblico, la Casa delle armi di Luigi Moretti a Roma versa nel degrado
Se fino a qualche anno fa c’interrogavamo sul destino della Casa delle armi, oggi non possiamo che costatarne e denunciarne lo scempio. La condizione in cui è stata ridotta rischia di essere l’ennesima bruciante sconfitta per la capitale e un grave depauperamento del suo patrimonio architettonico recente.
Nata come casa sperimentale del balilla, l’opera si pone ben oltre quei “coraggiosi esperimenti” che Giuseppe Pagano riconosceva nelle case del balilla, collocandosi, nell’evoluzione dell’architettura del primo Novecento, come uno dei vertici della ricerca personalissima condotta da Luigi Moretti. La casa si compone di due blocchi disposti a L collegati da un passaggio a ponte e destinati rispettivamente a biblioteca e sala di scherma, mentre un originale elemento a pianta ellittica, sul fondo della biblioteca, ospita l’ingresso degli schermidori. I chiari volumi sono impostati su un basamento dalla forma depurata e trasfigurata che diventa scalinata nell’ingresso e nella lunga facciata della palestra. Il rivestimento integrale – in lastre di appena 2 cm di spessore apparecchiate “a sorella” a giunti sottilissimi, piane o curve, e in masselli su angoli e coronamento – non consente a nessuna parte di mostrare la sua essenza strutturale (neppure alle travi e alle solette della passerella dipinte nell’estradosso a “finto marmo”) e assegna all’architettura quell’astrattezza estrema ricercata da Moretti che annota a margine delle tavole di ordinativo destinate alla ditta Simonelli di Marina di Carrara: le lastre e i masselli «debbono avere una faccia perfettamente levigata e lucidata a specchio e i quattro lati perfettamente ad angolo retto e quindi perfettamente a due a due paralleli; le coste delle lastre debbono essere perfettamente perpendicolari al piano lucidato». In una raffinata composizione, gli elementi strutturali aderiscono perfettamente al programma figurativo, così che Moretti riesce a fissare quel «punto magico» che consente di «fermare una struttura nella perennità di una forma». E una serie di effetti, che si possono definire barocchi, trasferiscono e solidificano sulle superfici esterne la tensione degli spazi interni, come si osserva nella sottile inflessione delle pareti laterali dell’aula della palestra cui corrisponde, all’esterno, l’ispessimento del muro segnalato da un’impercettibile risega del rivestimento.
Dopo essere stata ignorata e così poco apprezzata da essere occupata a fine anni ’60 da uffici giudiziari e da un’aula bunker, la casa è passata nella disponibilità del CONI che ha recentemente intitolato la “palazzina” (come è chiamata sul sito ufficiale) a un campione olimpionico. Gli usi impropri hanno causato gravi alterazioni della sua fisionomia. La casa ha subìto, nonostante il vincolo della Soprintendenza (1989), una serie d’interventi frammentari, così come accaduto per il Foro di cui è oggi impossibile leggere l’unitarietà, indifferenti alla sua architettura, assolutamente inadeguati (come altro definire il parapetto pieno apposto sull’eccezionale e, in origine, aerea scala elicoidale dell’ingresso?) e, a dir poco, schizofrenici che l’hanno ridotta a un edificio dalla fisionomia multiforme. Appare “ripulita” nelle facciate verso il Foro dove è stato restaurato il grande mosaico di Angelo Canevari, contrappunto all’originaria vetrata continua sovrapposta, in origine, alla struttura e poi rimossa e sostituita da vetrate singole che tamponano banalmente i campi tra i telai di cemento armato. Appare, sul fronte d’ingresso e sul fianco rivolto alla città, da cui è separata da una pesante palizzata (eredità dell’aula bunker), rozzamente mascherata da teli bianchi e che sono utili soltanto a farci dimenticare definitivamente che cosa si cela dietro di essi. Si mostra totalmente abbandonata al degrado sul retro, dove l’integrale rivestimento che fascia morbidamente i volumi è ferito da impropri fissaggi, pesantemente danneggiato da estese macchie nere e minacciato da un’aggressiva vegetazione infestante.
Inutili e inascoltati gli appelli e i richiami che si sono levati negli ultimi decenni dal mondo della cultura e dalla comunità scientifica perché fosse avviato, per un riconosciuto capolavoro dell’architettura italiana, e non solo, un serio progetto di conservazione che è ormai urgente per interrompere il processo di degrado prima che divenga irreversibile (e manca molto poco!), a meno che l’obiettivo non sia proprio questo.
Eppure, quello del degrado non è un destino ineluttabile. Lo dimostra, per restare a Moretti, un’altra opera non meno centrale nella sua produzione, la villa La Saracena a Santa Marinella (Roma), recentemente restituita alla sua indiscutibile bellezza per iniziativa dell’avveduta proprietà, Eleonora Cecconi, e per effetto di un attento progetto di conservazione curato da Paolo Verdeschi con Maria Costanza Magli.
Professore associato di Architettura tecnica presso l’Università di Tor Vergata, Roma. La sua attività di ricerca è incentrata sull’evoluzione delle tecniche edilizie con l’obiettivo di analizzare il rapporto tra architettura e costruzione. In questo ambito approfondisce temi e opere dell’architettura italiana del Novecento e affronta le problematiche relative al restauro e alla conservazione del moderno. È stata tra i fondatori e presidente di DOCOMOMO Italia ed è membro di ArTec, Associazione scientifica per la promozione dei rapporti tra architettura e tecniche dell’edilizia