Torniamo a investire nell’edilizia residenziale pubblica
Il segretario generale di IN/Arch lancia una proposta per la ripartenza, attraverso un piano che affronti la diseguaglianza sociale e il disagio abitativo
LEGGI GLI ALTRI CONTRIBUTI DELL’INCHIESTA “LE CASE E LA CITTA’ AI TEMPI DEL CORONAVIRUS”
Mi permetto di avanzare una proposta per la task force guidata da Vittorio Colao in vista della “rinascita” della fase 2 o 3 o non so quale: avviare un grande programma di edilizia residenziale pubblica per le fasce deboli della popolazione. Non so come cambierà il nostro sistema di sviluppo, come muteranno le città, ma so che tra le conseguenze di questa crisi sanitaria e del lockdown del sistema economico-produttivo ce n’è una particolarmente preoccupante: l’acuirsi delle diseguaglianze sociali e l’aumento di cittadini in condizioni di povertà assoluta e relativa. Questa crisi rischia di riflettersi pesantemente anche sulla condizione abitativa delle fasce deboli, aggravando un’emergenza già molto preoccupante in numerose città italiane prima della pandemia. È necessario chiedersi quante famiglie saranno presto a rischio di sfratto per morosità, avendo perso le risorse per sostenere i canoni di affitto. Quante rischiano di perdere la casa di proprietà perché impossibilitate ad onorare il mutuo.
Sappiamo che in Italia gli impegni finanziari dedicati al “diritto all’abitare” ed all’edilizia sociale pubblica negli ultimi trent’anni sono stati bassissimi. Siamo da troppo tempo il paese europeo che spende meno nel settore. L’offerta abitativa pubblica in Italia, dagli anni ’80 si è ridotta del 90%. Per queste ragioni propongo a chi ha la responsabilità di programmare gli interventi per la “ripresa” di avviare un piano d’investimenti per l’edilizia residenziale pubblica e che tale piano debba essere considerato, accanto all’impegno per una migliore sanità pubblica o per maggiori servizi sociali, una componente essenziale per un nuovo welfare in grado di diminuire precarietà e povertà. Non solo quindi risorse per le opere infrastrutturali, pur estremamente necessarie e urgenti.
Molti prefigurano per il dopo crisi una “economia da dopoguerra”. Possiamo allora guardare ad una nostra storia non molto remota, legata, appunto, alla “ricostruzione” post bellica. Nel 1949 il Parlamento italiano approvò il progetto di legge dell’allora ministro del Lavoro, Amintore Fanfani, denominato “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori”. Quel piano consentì a migliaia di famiglie di migliorare la propria condizione abitativa e contemporaneamente offrì una risposta efficace al problema della disoccupazione. In 14 anni di attività furono costruiti di circa due milioni di vani, offrendo una casa in affitto a basso costo ad oltre 350.000 famiglie. Per gestire questo complesso intervento furono create due strutture che “centralizzarono” l’intero sistema di gestione e controllo: un Comitato di attuazione diretto da un ingegnere, Filiberto Guala, e la Gestione INA-Casa, responsabile del coordinamento di tutti gli aspetti architettonici e urbanistici, guidata dall’architetto Arnaldo Foschini, preside della Facoltà di Architettura della capitale. All’interno della Gestione INA-Casa fu istituito un Ufficio architettura la cui direzione fu affidata ad Adalberto Libera. In quell’occasione l’architettura italiana compì uno sforzo straordinario di ricerca sui temi dell’abitazione, del miglioramento dello spazio abitabile, della città e della sua pianificazione, del concetto di quartiere, riconquistando un ruolo ed una responsabilità sociale per la figura del progettista.
Guardando a quell’esperienza ed al bisogno che abbiamo oggi di una ricostruzione sociale, pur in assenza di macerie fisiche, occorre avviare presto un nuovo grande piano di edilizia popolare, investendo per esso risorse molto più ampie del miliardo di euro proposto dal ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli e inserito nella legge finanziaria 2020. Naturalmente oggi il tema non andrebbe più coniugato in termini di costruzione di nuovi quartieri, nuove periferie, nuovo consumo di suolo. La necessità di dotare ampie fasce di popolazione di edilizia sociale deve oggi confrontarsi con i temi della rigenerazione urbana, del riuso e riqualificazione dell’ingente patrimonio immobiliare pubblico e privato dismesso, di una produzione edilizia ispirata alla sostenibilità ambientale e sociale ed all’efficienza energetica, della rivitalizzazione delle aree interne del Paese e dei borghi disabitati. Un piano per la casa che sappia anche offrire risposte ai problemi dell’accoglienza e dell’integrazione di nuovi lavoratori immigrati, spesso vittime di un disagio abitativo tra i più estremi. In sostanza un intervento del soggetto pubblico, come fu per il piano Fanfani, in grado di orientare le politiche di rigenerazione delle nostre città e territori.
Un piano di edilizia sociale pubblica ha assoluto bisogno del contributo del mondo dell’edilizia e, soprattutto, della cultura architettonica. Sarebbe un’occasione per tornare a riflettere sulla casa sociale, sulle soluzioni tipologiche e distributive, sulla costruzione a basso costo, sulle tecnologie innovative, sul rapporto tra casa e città, su nuovi modelli sostenibili del costruire. Tale impegno si rende quanto mai urgente oggi, dopo aver constatato la frequente inadeguatezza delle nostre abitazioni di fronte al prolungato #iorestoacasa, dopo aver sperimentato i nuovi bisogni legati allo smart working ecc.
La riflessione sulla casa popolare, ahimè, è stata abbandonata da anni dal dibattito architettonico contemporaneo, troppo a lungo “distratto” dalle prestazioni spettacolari di grandi edifici muscolari ed autoreferenziali, con budget esorbitanti, espressione simbolica della globalizzazione e del predominio dell’economia finanziaria. Nel 1949 le migliori menti dell’architettura italiana seppero offrire un contributo reale ad un Paese in ginocchio dopo il disastro della guerra: s’impegnarono in prima persona per offrire risposte al bisogno di case per i più poveri e di case a basso costo.
Forse è giunto il momento di tornare a lavorare su questi temi, a sperimentare e innovare per offrire soluzioni ai più deboli della società. Ed a ridare così un ruolo sociale (e meno marginale) all’architettura.
Il presente articolo è un adattamento del testo pubblicato qui
