Architettura e detenzione: un incontro mancato
Ad onta delle proposte degli Stati generali dell’esecuzione penale, il nuovo ordinamento penitenziario, approvato dal primo governo Conte, limita la possibilità di ricorrere a misure alternative alla detenzione, rendendo così impraticabile la riqualificazione della maggior parte degli istituti esistenti a causa del persistente sovraffollamento
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Gli ultimi giorni (o settimane, o mesi) del governo Gentiloni, prima delle elezioni dell’aprile 2018, furono caratterizzati, oltreché dalla cosiddetta gestione corrente, dal tentativo di condurre a compimento i percorsi di approvazione di alcune leggi, avviati da anni. Fra questi, la riforma dell’ordinamento penitenziario assumeva particolare rilevanza non solo perché, secondo le parole quanto mai attuali di Voltaire, «La civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri», ma soprattutto per il lavoro che il Ministero di Giustizia aveva portato avanti sul tema a partire dal 2015. Erano trascorsi meno di due anni dalla sentenza di condanna dello stato degli istituti penitenziari italiani da parte della Corte europea dei diritti umani, soprattutto a causa del sovraffollamento che li caratterizzava. All’indomani di tale sentenza era stata condotta un’azione radicale, mirata a superare quel sovraffollamento, riuscendo a ridurre da circa 65.000 a circa 50.000 unità la popolazione carceraria, soprattutto attraverso un’adozione massiccia di “misure alternative alla detenzione” (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, regime di semilibertà o liberazione anticipata), senza che ciò comportasse alcun incremento significativo della criminalità.
Sull’onda di quell’azione emergenziale – e per tentare di passare dal provvedimento contingente a una strategia d’attacco – nella primavera del 2015 venivano convocati dal ministro Andrea Orlando gli Stati generali dell’esecuzione penale: 18 tavoli di lavoro, che coinvolgevano alcune centinaia di esperti di differenti discipline, mirati a elaborare una nuova visione della pena. Il tavolo numero 1 era destinato a “Gli spazi della pena: architettura e carcere”. Un’attenzione ai luoghi (oltrechè evidentemente ai modi) dell’erogazione della pena, che in Italia era completamente assente da quarant’anni, ovvero da quel decennio d’oro 1965-75 che aveva visto un’architettura innovatrice anticipare – e per molti versi ispirare – la radicale riforma dell’ordinamento penitenziario italiano del 1975.
Quella spinta – che aveva coinvolto architetti come Giovanni Michelucci, Mario Ridolfi, Sergio Lenci insieme a tanti altri – si era infranta, a partire da metà anni ’70, contro l’emergere del fenomeno terroristico, in nome del contrasto al quale l’approccio di tipo riabilitativo era stato sostanzialmente abbandonato sull’altare di considerazioni squisitamente securitarie che erroneamente erano state presentate come estranee all’architettura. Una sterzata ingiustificata e dannosa – colpevolmente non contrastata dalla stragrande maggioranza di noi architetti – se è vero com’è vero che gli edifici e i complessi fortificati consegnatici dalla storia sono stati sempre concepiti da architetti, talora anche eminentissimi.
Da allora, e fino alla svolta del 2015, la progettazione di nuovi istituti e le ristrutturazioni e ampliamenti di quelli preesistenti hanno per lo più espulso il mondo dell’architettura, divenendo appannaggio esclusivo di uffici tecnici sedicenti neutrali, che proponevano soluzioni presuntamente oggettive in risposta a esigenze spesso arbitrarie. Valga per tutti il famigerato “steccone” del Piano carceri, ovvero il padiglione per 200 (ma talora fino a 400) detenuti, catapultato in molti istituti italiani, uguale a se stesso qualunque fossero la latitudine e il contesto.
Il rapporto finale del tavolo 1 degli Stati generali dell’esecuzione penale – composto da architetti, sociologi, avvocati, magistrati, direttori di istituti – riaffermava con forza l’opportunità di ricorrere alle misure alternative alla detenzione in tutti i casi in cui fosse possibile, riducendo il carcere a extrema ratio per i casi irrisolvibili per altra via; proponeva un modello di istituto di dimensioni contenute, inserito e permeabile ai contesti urbani, piuttosto che segregato in “lande desolate” e occultato da un imponente muro di recinzione; delineava un organismo complesso, nel quale tutti i requisiti che caratterizzano la vita libera (a eccezione, naturalmente, della libertà di muoversi all’esterno) – ovvero il diritto al lavoro, alla formazione, alla creatività, al tempo libero, allo sport, alla socialità, a una residenza in gruppi/appartamento anziché in celle allineate lungo corridoi che formano bracci e raggi – venissero garantiti, attraverso una riproduzione quanto più fedele possibile delle condizioni di un’esistenza normale, alla quale il trattamento penitenziario è chiamato a riabilitare. Tutto questo percorso era motivato dalla constatazione che, al di là del carattere incivile che li caratterizza, gli istituti penitenziari italiani attuali si rivelano particolarmente inefficaci, stante che producono un buon 70% di recidiva nei detenuti, a fronte di un 20% fra coloro che vengono assegnati alle misure alternative. Non sono più né davvero afflittivi (per fortuna!), né seriamente riabilitativi ma solo, per dirla con il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, “infantilizzanti”.
Per trasformare in legge gli orientamenti degli Stati generali dell’esecuzione penale, era stata costituita dallo stesso ministro Orlando, nella seconda metà del 2017, una Commissione per la riforma dell’ordinamento Penitenziario, che ha lavorato con intensità e passione a un nuovo strumento legislativo grandemente evolutivo, nel quale fossero contenuti (pur in misura decisamente insufficiente) alcuni indirizzi di carattere spaziale. Dopo aver superato i passaggi istituzionali previsti (subendone riduzioni e decurtazioni), tale articolato non è stato approvato in tempo utile dal governo Gentiloni, finendo per entrare nella numerosa schiera delle “occasioni di civiltà perduta” del nostro paese, nell’ottima compagnia della legge sullo jus soli. Allorché, all’indomani delle elezioni del 2018, il testo è tornato in aula, è stato approvato con una decurtazione drammatica delle misure alternative alla detenzione, cuore pulsante di qualsivoglia iniziativa mirata a un’accezione non meramente afflittiva della pena.
Il clima “giustizialista” caratteristico di questa stagione ha fatto sì che il numero dei detenuti italiani tornasse ai livelli precedenti la “sentenza Torreggiani” (condanna del sovraffollamento delle carceri) del 2013, che si avviasse una politica di riconversione di alcune caserme dismesse in istituti penitenziari, che il carcere tornasse ad apparire come unica risposta possibile – anziché extrema ratio – a qualsivoglia forma di trasgressione.

Vicepresidente nazionale IN/ARCH, impegnato nel restauro degli edifici e dei centri storici, ha operato nella pianificazione dei nuclei antichi di Benevento, Galatone (Lecce), Venafro (Isernia). Direttore dei Laboratori di recupero dell’ex Ghetto di Roma e del centro storico di Cosenza. Impegnato nella pianificazione urbanistica, ha firmato le Varianti generali ai Piani regolatori di Benevento e Cosenza.
Progettista del Museo nazionale della Shoah a Roma, in fase di esecuzione. Ha diretto il Nuovissimo manuale dell’architetto” e il Manuale del restauro architettonico“, è stato coordinatore redazionale della rivista “L’architettura – cronache e storia”. Incaricato di corsi di “Restauro del territorio” nelle facoltà di Architettura di Roma e Reggio Calabria. Autore del volume Conservazione dell’Avvenire. Curatore del Padiglione Italia alla XIII Biennale internazionale di Architettura di Venezia del 2012.