Accoglienza diffusa per un nuovo modello di sviluppo territoriale

Accoglienza diffusa per un nuovo modello di sviluppo territoriale

 

L’appello di IN/Arch a tutte le forze istituzionali e produttive del Paese perché sappiano passare dall’uso politico strumentale a una gestione responsabile del fenomeno epocale delle migrazioni

 

È in corso una polemica furibonda sul tema dell’arrivo di migranti africani nel nostro Paese, che da tutto sembra alimentata meno che da un’analisi attenta del fenomeno, come ha fatto notare Gian Arturo Ferrari sul “Corriere della sera” del 2 luglio scorso: «Oggi di fronte al problema dell’emigrazione la cultura europea gira la testa dall’altra parte, non vuole abbassarsi a questioni così spicciole, in realtà non sa cosa dire. Certo, non è facile, ma quando mai ha affrontato prove facili?». 

Un’accusa d’inerzia per molti aspetti meritata, alla quale l’Istituto Nazionale di Architettura ha cercato di sottrarsi anche in occasione dell’ultimo Congresso nazionale, tenutosi a Roma l’11 aprile scorso. Nel documento conclusivo dell’assise si legge infatti: «[…] sul piano industriale il nostro Paese è caratterizzato soprattutto da imprese medio-piccole aggregate in distretti produttivi che solo raramente si trovano all’interno delle aree metropolitane. Si tratta di un modello insediativo alla radice dell’attrattività che, sul piano turistico, l’Italia esercita ancora nel mondo – il Paese dei 30.000 borghi – come luogo dell’Italian life style, del buon vivere in un territorio nel quale insediamenti e paesaggi agricoli si fondono in maniera mirabile. Di un modello di organizzazione del territorio caratterizzato non da grandi concentrazioni urbane, ma da un forte policentrismo. Un policentrismo in grado di coinvolgere anche i territori rurali nei processi di crescita economica. Un policentrismo capace di coniugare in modo nuovo – nell’epoca della connettività – i concetti di smart city, di smart communities, di resilienza, di innovazione, di sostenibilità ambientale. Un policentrismo potenzialmente in grado di garantire il benessere dei suoi abitanti e di proporre un modello diverso di accoglienza di quanti premono alle nostre porte in fuga da guerre e miserie insopportabili. Il tema dell’accoglienza, infatti, non si qualifica come emergenza, ma come fenomeno di lunga durata che in questo modello insediativo può trovare una risposta diversa ai drammatici problemi dell’invecchiamento della popolazione e dell’abbandono delle aree interne: non più concentrazione di nuovi migranti nelle periferie delle aree metropolitane, ma sistemi di accoglienza diffusa nel territorio, mirati a promuovere processi virtuosi di integrazione, anche ripopolando i tanti territori agricoli e i tanti borghi abbandonati della penisola, innestando nuovi processi di sviluppo economico[…]»

Oggi riproponiamo questo approccio di fronte all’insorgere di preoccupanti fenomeni d’intolleranza nei confronti di esseri umani che raggiungono il nostro Paese in preda alla disperazione. Un’intolleranza generata certamente dall’assenza di serie politiche d’integrazione, che ha fatto ricadere sui ceti più deboli della popolazione il peso dei nuovi arrivati, per lo più abbandonati a se stessi ai margini delle aree metropolitane. Un’intolleranza che, nondimeno, deve fare i conti con la lunga storia di emigrazione che caratterizza il nostro popolo, da una parte, e con la grande tradizione di accoglienza che ha caratterizzato e fatto grande il nostro popolo a partire dall’antichità, facendo confluire nelle nostre vene il sangue di tante culture diverse.

Sappiamo quanto difficili da sopportare siano, per i nostri concittadini “in prima linea”, gli appelli all’apertura delle frontiere che provengono spesso da persone che non devono né fare quotidianamente i conti con le conseguenze più pesanti della crisi economica in corso ormai da oltre dieci anni, né trovarsi a contatto diretto con presenze inquietanti di persone provenienti da paesi e culture lontani, in condizione di nullatenenza assoluta. Eppure non possiamo dimenticare come l’immissione di collaboratori domestici e badanti stranieri abbia rappresentato una “salvezza” per le nostre famiglie negli ultimi decenni, nonostante si sia trattato per lo più di persone a lungo clandestine (molto più numerose di quante ce ne sono oggi).

Più vicino al nostro settore c’è da ricordare come, sempre negli ultimi decenni, il comparto delle costruzioni si sia avvalso in misura decisiva di manodopera per lo più straniera e largamente irregolare, gran parte della quale solo molti anni dopo l’arrivo in Italia è diventata europea.

Non diversamente il processo di rigenerazione del territorio italiano, che abbiamo iniziato a promuovere nel 2012, non potrà svilupparsi attraverso dinamiche puramente “endogene”: secondo tutte le analisi previsionali – anche se dovessero essere confermate le tendenze attuali a una ripresa produttiva – le aree montane, le aree interne e l’intero Mezzogiorno sono destinati a conoscere un’ulteriore riduzione e un invecchiamento della popolazione autoctona. Di conseguenza, la formazione e l’avviamento al lavoro di comunità di “aspiranti” italiani appare come condizione ineludibile per un rilancio economico del nostro Paese che, per incapacità di attivare politiche d’incremento dell’occupazione giovanile, subirà probabilmente un esodo delle nuove generazioni ancora maggiore di quello già in atto.

In un momento così delicato della nostra storia l’IN/Arch – che affonda le proprie radici nella coniugazione di cultura d’impresa e cultura del progetto di matrice olivettiana, animata da una sincera sensibilità sociale – fa appello a tutte le forze istituzionali e produttive del Paese perché sappiano passare dall’uso politico strumentale a una gestione responsabile del fenomeno epocale delle migrazioni. Un appello che non nega una motivazione di natura etica, ma che scaturisce soprattutto dalla volontà di contribuire ad una ripresa economica e produttiva del nostro Paese, a partire dal settore delle costruzioni che vede il nostro Istituto in prima linea fin dalla sua nascita nell’ormai lontano 1959.

 

Immagine di copertina: particolare dal murale “Triumphs and Laments”, realizzato sulle sponde del Tevere a Roma da William Kentridge (2016)

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